, 21/12/2013 12:35
Nonostante molti nel Governo stiano seriamente cercando di attrarre risorse ed investimenti dall’estero lavorando su credibilità ed affidabilità del Paese (ad es. con Destinazione Italia), la minaccia della “Web Tax” di questi giorni sta rischiando di vanificare ogni sforzo. Con un intervento da guerriglia parlamentare, è stato introdotto un emendamento nella Legge di Stabilità – una mostruosa ed illeggibile accozzaglia di norme contabili e finanziarie che notoriamente non può essere fermata, pena la paralisi economica ed istituzionale dello Stato – con la consapevolezza che proprio la mole del provvedimento avrebbe imposto l’approvazione blindata dal voto di fiducia, quindi senza che si potesse entrare nel merito dei singoli provvedimenti. La bozza di norma illegale (Tim Worstall su Forbes definisce l’iniziativa “entirely illegal”), miope, dannosa per la concorrenza ed i consumatori, ha inizialmente preteso di limitare il commercio elettronico alle sole aziende titolari di una partita IVA in Italia. Mentre scriviamo non sappiamo ancora come andrà a finire: i vertici del PD hanno preso le distanze, la norma è stata edulcorata e limitata alla sola compravendita di pubblicità, la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno per intervenire quanto prima con ulteriori modifiche e forse per bloccare definitivamente il provvedimento, intervento non facile vista la consapevole blindatura legislativa. Il bombardamento di critiche, la obiettiva illegalità della norma (anche nella versione edulcorata) ed il minacciato intervento della U.E. finiranno probabilmente per salvare il nostro Paese dal rischio di isolamento internazionale, pur lasciandoci con le ossa rotte sul piano della reputazione. Tuttavia è indispensabile una riflessione sulla questione. A causa della natura extraterritoriale di internet, l’economia digitale crea probabilmente maggiori spazi per manovre elusive; non a caso la Commissione Europea ha istituito un “Gruppo di Esperti di Alto Livello” per esaminare le possibili soluzioni, compatibilmente con la struttura e gli obblighi comunitari. Da che mondo è mondo, il commercio internazionale consente negoziazioni del tutto legali che sfruttano le Convenzioni internazionali e le singole normative fiscali dei Paesi coinvolti: ciò avviene ovviamente anche nel web. Peraltro, siamo noi europei che abbiamo voluto un mercato comune, senza barriere interne: ora non possiamo lamentarci se un’azienda americana decide di aprire una sola filiale in Europa invece che dodici o ventiquattro, magari sfruttando un regime fiscale o normativo più vantaggioso. L’Irlanda è più interessante per il trading, il Lussemburgo per le royalties, l’Italia per le start-up tecnologiche. Ogni Paese cerca di rendersi più attraente degli altri per qualche caratteristica specifica. La Web Tax andrebbe in senso contrario alle misure di attrazione, colpendo in modo devastante l’intera economia digitale. Molti commenti hanno evidenziato l’obiettivo della tassazione delle multinazionali del web 2.0 (Google, Facebook, Amazon e Apple tra tutte), tralasciando però che l’ipotizzata Web Tax altro non è che IVA, una tassa che colpirebbe anzitutto il consumatore, poi le piccole e medie aziende e solo in ultima analisi le multinazionali. La democratizzazione e disintermediazione del commercio elettronico portano grandi benefici al consumatore, consentendogli di scegliere tra più prodotti e servizi a condizioni economiche vantaggiose e quindi di acquistare dal rivenditore canadese o da quello coreano. Imporre a costoro di aprire una partita IVA in Italia (magari per una sola vendita da 10 euro) vuol dire erigere una barriera intorno al nostro Paese e abrogare per legge i benefici che internet ha introdotto. E’ di tutta evidenza che solo le multinazionali avrebbero la forza di stabilirsi in Italia o aprire un’agenzia; ciò ridurrebbe la concorrenza, taglierebbe dal mercato le piccole e medie aziende straniere, esponendo il Paese a reazioni o embarghi, ed avrebbe un evidente effetto inflazionistico, comportando per il consumatore un costo aggiuntivo oltre alla stessa IVA. La Web Tax, quindi, non colpirebbe solo le aziende digitali (di altri Paesi) ma soprattutto i consumatori italiani, limitandone la libertà di scelta, l’accesso all’innovazione internazionale, la possibilità di ottenere significativi risparmi. Invece, per le multinazionali del Web 2.0, che si comportano quasi da monopolisti poiché offrono servizi ormai irrinunciabili, la necessità di un intermediario con partita IVA italiana avrebbe soltanto l’effetto di aumentare i prezzi. Inoltre, l’annunciata limitazione del provvedimento alla compravendita di pubblicità avrebbe comunque un effetto devastante sulle imprese italiane che esportano: la pubblicità sul web, che oggi è la più efficiente, per esse diventerebbe più costosa almeno del 30% (IVA più costi di struttura delle aziende media) mettendole fuori dal mercato. L’incidente della ipotizzata Web Tax deve essere un monito per i legislatori: internet è una risorsa enorme la cui struttura, filosofia e funzionalità devono essere rispettate. I fondi che il nostro Paese cerca disperatamente possono essere generati da un corretto uso della rete, senza ricorrere a grossolane tassazioni che invece deprimono l’economia senza creare valore.